Festival di Spoleto, Grifoni: “Attingere alle doti di Lorenzo Ricci Muti”

Pubblichiamo questo lungo intervento che Sergio Grifoni ha scritto e condiviso sui social

Anche allora era il 26 giugno, ma era un giovedì del 1986.
Don Elio Simonelli, dinamico parroco del Duomo, salì velocemente sulla millecento del maestro di musica Giovanni Falcinelli, una attempata auto non certo abituata alla fretta. Direzione Montefalco, chiesa di San Fortunato, famosa perché il Vescovo Spes, che la consacrò nel 422, all’atto della benedizione, fu raggiunto da una colomba che si posò sul suo capo per tanto tempo e poi, nel corso della notte, ritornò con un biglietto nel becco, sul quale era scritto: “Corona super capite tuo hodie pretiosa est, qua induit te Dominus”. Praticamente una investitura di legittimazione divina. Don Elio lo sapeva, ma non era quello il contemplativo motivo del viaggio. Quel giorno doveva unire in matrimonio nientemeno che il famoso maestro di orchestra Lorenzo Ricci Muti, che aveva visto crescere e che convolava a nozze con la bionda americana Jill Swisher di Chicago, bravissima musicologa ed eccellente suonatrice di flauto. I due si erano conosciuti qualche anno prima alla Duke University di Durham, nel Nord Carolina, dove Lorenzo insegnava. Una cerimonia ristretta e riservata la loro, così come era nel carattere del maestro. Falcinelli, prima di mettersi all’organo, pulì ben bene le spesse lenti dei riconoscibili occhiali perché, visti i personaggi, non voleva assolutamente viziare alcun accordo musicale. Era emozionato quasi come il piccolo Federico Cionchi, il famoso Righetto, nel momento in cui, venticinque lustri prima, poco più a valle, aveva visto apparire la Vergine Maria.
Ma questa è un’altra storia.
Gianni, così lo chiamavano, talvolta nel suonare era affiancato da Pietro Enrico e dal suo immancabile violoncello ma, in tale occasione, il giovane dottore, aveva il ruolo di testimone, condiviso con il dinamico Ettore, fratello dello sposo.
Faceva sempre le lastre, ma questa volta erano riservate alle intenzioni coniugali del suo amico d’infanzia. Riavvolgiamo però per un attimo il nastro, ritornando al perché di tale epilogo e scrutando fra le pieghe di una storia nota, ma non conosciuta fino in fondo. Lorenzo nasce a Spoleto, il due settembre del 1951, in un piccolo appartamento di via dei Gesuiti, a ridosso della Piazzetta dell’Erba. Viene coccolato da Uliano e Maria, i suoi vicini di casa e dalla mitica Sabina, dirimpettaia venditrice di latte. Non da meno si comportano i commercianti che gravitano al di sotto di quel palazzo che fa angolo con il Borgo: Peppe Bacchi il barbiere, Nicola Marra il barista e la famiglia Discepoli con il tradizionale negozio di abbigliamento. La madre, Ornella Ricci, era nativa di Eggi, mentre il padre Raniero era originario di Castel Ritaldi. Aveva per lungo tempo fatto l’autista di autobus, per terminare la carriera come tassista, grazie a quella patente speciale che aveva conseguito durante la campagna di Etiopia. Come tutti i bambini di quel quartiere, se non andavi dalle suore, era quasi scontato essere iscritto alle elementari di piazza XX Settembre, caratterizzata dalla presenza del direttore Renato Rippo e del simpatico bidello factotum, Vittorio Bartoli. Il suo maestro è Enzo Dominici, mentre i compagni di avventura sono Angelo Carloni, i gemelli Michele e Claudio Amici e, appunto, Pietro Enrico. Frequenta la seconda classe quando, un bel giorno, il padre, tornato a casa per il pranzo, dice alla moglie: “Sai, c’è un americano che cerca un bambino per il teatro”.
E Lorenzo ascolta.
Quell’americano non era altro che Giancarlo Menotti ed era il 1958, l’anno del primo vero Festival, col Macbeth di Verdi, con Visconti, Schippers, Zeffirelli, Robbins, Giuseppe Patroni Griffi. Nel pomeriggio Ornella, per accontentare il figlio e per soddisfare la sua comprensibile ambizione materna, lo accompagna al teatro Nuovo. Entrata nell’affollato foyer, si accorge che tante altre mamme hanno avuto la stessa idea. Dopo un po’ di attesa, il piccolo Lorenzo viene chiamato e viene portato al cospetto del carismatico Menotti che, con sguardo benevolo e tranquillizzante, gli dice soltanto: “Ciao, mettiti seduto”. Gli chiede di cantare pochissime frasi, quelle che bastano però per preferirlo agli altri. Non resterà tanto seduto perché, già il mese successivo, finito il Festival, il piccolo viene aggregato alla Compagnia artistica, per raggiungere il padiglione statunitense all’Expo di Bruxelles, dove si stava mettendo in scena la Maria Golovin, per diventare Trottolo, il personaggio cucito su di lui.
Non male come trasferta artistica a soli sette anni!! I genitori lo affidano alla severa e scrupolosa custodia della Lida Gianloreti, braccio destro di Menotti.
Sta iniziando il sogno. La trasferta si ripete ancora, grazie anche ai permessi scolastici che riesce ad ottenere e questa volta però non in Europa, ma direzione Broadway e non con la Gianloreti, ma con il più permissivo Raf Ravaioli che, per tre settimane, lo ospita in un piccolo appartamento.
I genitori nel frattempo lo iscrivono alla scuola di musica delle Piantarelle, diretta dall’inossidabile Antonio Natalucci, scegliendo come strumento il pianoforte, sotto la competente guida della maestra Giardinieri.
Come sempre accade nei momenti magici, i tasti bianchi sono di più di quelli neri, ed ecco che arriva anche l’occasione della Scala.
Bisogna andare però a Milano e questa volta senza tutor artistico.
Tocca al padre accompagnarlo. Col taxi? Nemmeno a parlarne: meglio il treno! A quei tempi non c’erano Frecce Rosse, Pendolini o Italo, al massimo potevi contare sull’accelerato, il cui nome era direttamente proporzionale al battito del loro cuore.
E così, dopo una caterva d’ore di viaggio, arrivano nella città meneghina e prendono subito alloggio all’albergo Marino: non era un gran che, ma stava proprio di fronte al teatro.
Fu un successo enorme. Tant’è che al ritorno, mentre il treno marciava regolare sulle rotaie, padre e figlio volavano sui binari dell’entusiasmo e della fantasia.
La notizia di questo bambino spoletino dalla splendida voce bianca sopranista, incomincia a diffondersi in ogni dove.
Lo chiama la RAI a Napoli, corre a Roma, sbarca addirittura al teatro di Cagliari: non c’ha pace! Viene intervistato dalla PBES, canale artistico degli Stati Uniti, il cui mattatore era Leonard Bernestein.
Arriva anche la televisione svizzera che, a differenza di quella italiana, trasmetteva già immagini a colori. Le telecamere transalpine scendono a Spoleto, perché lo vogliono immortalare nelle varie scene di vita quotidiana: a scuola, mentre pranza, mentre gioca, mentre suona. Dove finire però il servizio alla grande? Ovviamente in piazza Duomo. Gli operatori caricano baracca e burattini nell’auto di servizio e, pur essendo tradizionalmente integerrimi rispettosi delle norme, improvvidamente parcheggiano l’auto al centro della piazza, contando troppo sulla proverbiale permissività italiana. Non hanno fatto i conti però con l’irremovibile Enrico Natalizi, comandante dei Vigili Urbani che, senza colpo ferire e senza ospitale clemenza, affibbia loro una sonora multa. Quando ce vo’, ce vo’!!
I giornali continuano a scrivere di questo bambino prodigio, definendolo la migliore voce bianca d’Europa (qualcuno azzarda anche del mondo) e la casa discografica Columbia lo convoca per una audizione. Lorenzo si sposta da un luogo all’altro, come la sua famiglia che, nel frattempo, si trasferisce, prima in piazzetta Bovio, poi in Vicolo 1°, a ridosso di Corso Mazzini.
Sono gli anni durante i quali, nel poco tempo libero, trascorre tra gli spazi ameni di San Domenico, all’ombra di Padre Odorico e con il suo amico di giochi Tommaso Fagotto, che lo lascerà qualche anno dopo perché colpito da una terribile malattia. Resta sempre in contatto col maestro Menotti che, al raggiungimento dei suoi undici anni, lo fa esibire al teatro Caio Melisso, in una cantata in costume di Benjamin Britten, famosissimo compositore inglese.
Il ragazzo frequenta nel frattempo le medie alla Dante Alighieri o, meglio, “alla Dante”, come usavano dire coloro che volevano riempirsi la bocca. Chissà se saranno stati gli acuti della professoressa Luccioli a trasformare la sua voce da sopranista a baritonale, tant’è che nel 1968, diciassettenne liceale del Classico, parte per gli Stati Uniti grazie ad una borsa di studio, per prepararsi a diventare direttore d’orchestra. Frequenta prima il Curtis Istitute of Music di Filadelfia, quello che aveva ospitato anche Thomas Schippers, e poi alla Juilliard School di New York. Non ancora maggiorenne, era partito da solo, imbarcandosi a Fiumicino, per arrivare ad un appartamentino di West Side, un quartiere non certamente pacioso e rassicurante come quello della piazzetta dell’Erba. Infatti, una brutta sera, mentre fa rientro a casa, viene aggredito da un manipolo di drogati che lo derubano dell’orologio e di cinque dollari, i soli che aveva in tasca.
Poteva finir peggio, ma c’è sempre un destino che ci guida. Durante l’estate ritorna in Italia e, proprio in una di queste “rincasate”, gli propongono una borsa di studio al S. Cecilia di Roma per una durata di dieci anni. Accetta, ma vive tale esperienza per soli quattro mesi, spesso scorazzato da Arduino il sarto con la sua inossidabile cinquecento.
Nel frattempo però arriva anche l’offerta di una seconda borsa di studio, questa volta per New York, di soli cinque anni, sicuramente più breve ma più appagante per le sue melodiose ambizioni.
Tante esperienze in quegli anni giovanili: Parigi, Strasburgo e poi, finalmente, Spoleto.
Nel 1972, Menotti lo chiama a dirigere il concerto grosso di Corelli, nell’ambito della Maratona di Musica Barocca, all’interno di S. Eufemia, con l’orchestra ufficiale del Festival (ironia della sorte, quell’anno ci fu anche il debutto di un ancor sconosciuto Philip Glass, autore delle musiche che hanno inaugurato il Festival venerdì scorso: son passati cinquant’anni). L’esperienza di Lorenzo si ripete l’anno successivo, sempre nei concerti Maratona, quando impreziosisce l’incarico diventando anche assistente del maestro Giuseppe Patanè nel Requiem di Verdi. Era il preludio per l’esordio ufficiale alla direzione del Concerto finale in piazza Duomo, avvenuto il dieci luglio del 1977, con la “Creazione” di Franz Joseph Haydn: Lorenzo ha soli 26 anni.
Sono gli anni di piombo, delle Brigate Rosse, del terrorismo diffuso.
Infatti, quando Muti prende posto sulla pedana antistante la magica conchiglia, viene sopraffatto da un brivido freddo, dovuto alla visione dei tanti poliziotti schierati sulle guglie del Duomo, con tanto di mitra, a protezione del ministro dell’Interno Francesco Cossiga, seduto in prima fila, accanto al sindaco Mario Laureti ed al Vescovo Alberti.
Ciò che riceve invece è solo una raffica di applausi. Ricevimento serale nella mecenatica casa Antonini, in quel dei Cappuccini, raggiunta a bordo della propria Fiat 850. Un altro tassello nel mosaico della semplicità.
L’anno successivo dirige “Così fan tutte” di Mozart, con la regia di Giorgio De Lullo. Incomincia a serpeggiare la voce di una sua possibile nomina a Direttore Musicale del festival, spalleggiata nientemeno che da Romolo Valli. Una mattina però, come fu la prima volta da bambino, lo chiama Giancarlo Menotti, dicendogli: “Mettiti seduto. Devo purtroppo dirti che Spoleto non ti vuole!”.
Grossa amarezza, non tanto sul come, quanto sulle ragioni del diniego.
Nonostante ciò, rimane in città, continuando a dirigere in Italia, in Olanda, in Francia.
Ma i tasti neri non finiscono a metà della tastiera.
Una nuova occasione gli si ripresenta nel 1983, al momento della scelta del Direttore Artistico del Teatro Lirico Sperimentale.
Sembra fatta per lui, perché a sostenere la sua candidatura ci sono personaggi da novanta, come: Romoletto Domicini, Aleandro Bevilacqua e Toscano. Ma non siamo nel paese della logica, ed anche in tale occasione, c’è chi lo avvicina, senza farlo mettere seduto, e gli dice, “Spoleto non ti vuole”. Aridaje!!!!!
Gli preferiscono il pur valido Michelangelo Zurletti. Quando è troppo, è troppo!! Lorenzo, amareggiato e mortificato, rifà le valigie e ritorna negli Stati Uniti. Insegna a Durham, nella prestigiosa Duke University nel Nord Carolina dove appunto, nel 1984, conosce Jill, studentessa di musicologia che, presa per mano, condurrà in quell’altare della chiesa di San Fortunato a Montefalco. La giornata di oggi, trentasei anni fa.
Nel 1989 nasce il loro figlio Niccolò che studia violino e, come il padre, diventa direttore di orchestra.
Il frutto non cade mai lontano dall’albero.
Nel frattempo Lorenzo ha creato e diretto la The Chamber Orchestra of the Triangle, un’ orchestra da camera con quaranta elementi e, nel 1966, ha fondato insieme alla moglie, la Spoleto Study Abroad, ovvero corsi per studenti delle scuole medie superiori statunitensi e che, ogni anno, vengono nella nostra città, si fermano un mese, e studiano materia umanistiche in forma interdisciplinare. Spoleto non l’ha voluto, ma lui ha continuato a volere Spoleto.
All’inizio furono ospitati da don Elio presso la Terrazza Frau e, dal 2019, operano a Palazzo Leti, appositamente acquistato da Lorenzo e Jill.
In questi giorni, pur se domiciliando nella romana piazza dei Fiori, la famosa coppia ha fatto definitivo ritorno nella nostra città..
Nonostante tutto!
Mai come adesso, potrebbe essere l’occasione buona affinchè la città si sdebiti con un suo illustre figlio, attingendo alle sue doti, alle dimostrate capacità ed alle maturate esperienze. Servirebbero magari per fargli per sempre dimenticare quella terrificante frase: “Spoleto non ti vuole”.
Ma poi mi chiedo: perché i migliori devono venire sempre da fuori, anche quando migliori non sono?
E perché c’è sempre qualcosa o qualcuno che aleggia sopra di noi e decide per noi, a beneficio del proprio presente, e a discapito del nostro futuro?
Mi auguro che questo mio auspicio nei confronti di Lorenzo, venga raccolto da chi di dovere, sperando che, almeno per una volta, non si resti zitti e….muti.