Spoleto, tramandare la propria testimonianza con la capsula del tempo: al via dal 1 febbraio

capsula

Ogni spoletino potrà inserire dentro la capsula quello che più ritiene significativo

Uno scrigno della memoria per consegnare alle generazioni di domani una parte della Spoleto di oggi: questo è la “capsula del tempo”, due scatole che saranno posizionate sotto la pavimentazione di piazza del Mercato e che racchiuderanno pensieri, oggetti, sogni e parole che racconteranno ai cittadini di domani come è il nostro tempo e la nostra città oggi. 
Dopo Boston, Blackpool, Olympia e la cripta della civilizzazione della Oglethorpe University di Atlanta, anche Spoleto lascerà ai posteri la sua capsula del tempo, unendosi così alle esperienze monitorate dall’International Time Capsule Society. 
Ogni spoletino potrà quindi inserire dentro la capsula quello che più ritiene significativo per descrivere il proprio tempo e per raccontarlo a chi verrà dopo di noi attraverso testi, foto, cartoline, pagine di giornale, cd-rom, dvd, pendrive.
Per permettere a tutti di tramandare la propria testimonianza, fino al 23 febbraio le scatole resteranno disponibili alla Biblioteca comunale “G. Carducci”. Da giovedì 1 febbraio sarà quindi sufficiente recarsi a Palazzo Mauri, seguendo le indicazioni posizionate all’ingresso del Caffè Letterario. L’ufficio in cui recarsi resterà aperto dal lunedì al sabato dalle  9 alle 13.30 e dalle 14.30 alle 18.15 e la domenica dalle 9.30 alle 13 e dalle 15 alle 17.
Per chi lo desidera l’oggetto da inserire potrà anche essere firmato, come testimonianza per i propri cari o per le persone vicine. L’obiettivo dell’iniziativa è quello di dare spazio alla fantasia e ai sogni, affinché il racconto del nostro tempo possa essere il più esaustivo possibile per chi verrà dopo di noi. 
La cerimonia si terrà sabato 24 febbraio alle ore 16 quando la ‘Capsula del tempo’, realizzata dall’azienda Tecnokar sarà collocata sotto la pavimentazione di piazza del Mercato.
Le scatole saranno poi aperte dopo esattamente 100 anni, il 24 febbraio 2118. Un sampietrino di ottone – realizzato dall’orafo spoletino Enrico Morbidoni – segnerà il punto esatto della piazza dove sarà posizionata la capsula.

One Response

  1. La mia lunga lettera agli Amici del Futuro, che ho inserito nella capsula del tempo, fa così…

    Spoleto, Capsula del tempo
    24 febbraio 2018 – 24 febbraio 2118

    Caro Amico del 2118,
    c’è una canzone di Ron, un cantautore del nostro tempo, che fa così: “Vorrei incontrarti fra cent’anni, tu pensa al mondo fra cent’anni, ritroverò i tuoi occhi neri, tra milioni di occhi neri, saran belli più di ieri…”
    E chissà come saranno gli occhi di chi, incuriosito, aprirà la Capsula del tempo nel futuro 24 febbraio 2118.
    Una cosa è certa: noi non ci saremo più.
    Ce ne saremo andati, ognuno col proprio destino, portandoci dietro la vita che abbiamo scelto e quella che, a nostra insaputa, ci è stata riservata.
    Però, a testimonianza di un briciolo di tempo, ci sarà tutto quello che verrà tirato fuori dalla botola, sperando che chi lo farà, sappia riconoscere due righe, un oggetto, un cd, insomma, un segno del nostro presente.
    Anche io, come tanti, ho voluto lasciare un’impronta, che simboleggia la mia eterna passione, la scrittura, il cui inevitabile risvolto è la lettura. Sono legata col doppio cordone a entrambe, per cui, essere ricordata come scrittrice o lettrice non fa la differenza.
    La scrittura, del resto, è un’arte antica, che si tramanda da secoli, e come tale, spero possa essere riconosciuta anche fra cento anni, non importa come. Chissà se a resisterà sarà la carta stampata o avranno preso il sopravvento gli e-book, fatto è che bisogna continuare a scrivere e a leggere, perché io sostengo che la cosa più bella che possa accadere a una persona è innamorarsi di un libro.
    Con un libro si sogna, si viaggia in molti mondi, si entra nelle emozioni, si vivono luoghi impossibili da visitare, ma soprattutto si combatte l’imbarbarimento culturale.
    Infatti, caro Amico del 2118, se torno col pensiero a cento anni fa, esattamente nel 1918, vedo una guerra, la prima Guerra Mondiale, in cui sono stati mandati a morire dei ragazzi che non hanno avuto il tempo di innamorarsi: né di una donna, né della vita.
    Oggi, al contrario, per lo meno in Italia, non ci sono guerre reali, ma le battaglie si consumano sul posto di lavoro, in famiglia, all’esterno, nei confronti dei più deboli. Su chi non ha possibilità.
    Infatti, c’è chi si ammala di malattie professionali che vengono chiamate con termini inglesi per addolcirne la portata, Mobbing, Burn out, Stress lavorativo e quant’altro… a scuola c’è un fenomeno inquietante definito Bullismo, talvolta alimentato dagli stessi genitori che prendono a schiaffi i professori. Ultimamente è accaduto, e speriamo che non bisogna inventare un nuovo termine anche per questo tipo di violenza. Se fra cento anni ve lo ritroverete, però, vorrà dire che non siamo riusciti a fare un innesto culturale come si dovrebbe.
    Ma non basta, perché coi sentimenti non è che vada meglio. Io sono nata nei primi anni ’60, quelli delle lotte per la parità e i diritti alle donne, ho vissuto grandi cambiamenti sociali: il voto alle donne, l’aborto, la separazione, istituti che in ogni paese laico e democratico hanno preso piede da tempo e vengono garantiti, mentre in Italia, chissà perché, si punta sempre al ribasso, considerato che c’è sempre qualche motivo che non permette la piena applicazione di talune leggi.
    Nel nostro Paese, ormai quasi quotidianamente, si parla di stalking e femminicidio, due termini tanto aberranti quanto evidenti, che hanno però una radice comune: la violenza nei confronti delle donne.
    Ecco, seppure cambino i tempi, cambino le leggi, la testa di certi uomini rimane sempre la stessa. Utilizzano il cuore delle donne come un “giocherello” che può essere trattato e maltrattato a proprio piacimento, e se c’è il rischio che non sia più loro, le ammazzano senza scrupoli.
    Insomma, questione più, questione meno, carissimo Amico del 2118, questo è lo stillicidio quotidiano cui ci sottopongono i media dalla mattina alla sera, bombardandoci di notizie, tutte negative, e facendo nascere una serie di paure nei giovani e spesso nei meno giovani.
    Perché i primi hanno paura del loro presente e non affrontano il futuro, mentre i genitori sono spaventati sia per il presente che per il futuro dei loro figli.
    E come se ne esce?
    Dovrai dirmelo tu fra cento anni se si è usciti da quest’impasse, perché, al contrario, nel quotidiano, al netto di quello che si scrive e si trasmette in tv, c’è tanta gente che come me vive onestamente, lavora, fa famiglia, si appassiona a uno sport, ha degli hobby, viaggia, va al cinema, a teatro, fa l’uncinetto, il bricolage, dipinge, canta, suona… ma che non facendo rumore, non finisce sulle prime pagine di un giornale.
    Tutto questo, in premessa, per venire al nocciolo della questione, ossia, di questa straordinaria iniziativa della mia amata Spoleto: La capsula del tempo.
    Nei giorni scorsi ho pensato molto a ciò che vi avrei potuto lasciare, e siccome siamo a scadenza, mi sento pronta!
    Ebbene, vi lascio i miei primi quattro romanzi pubblicati, affinché possano raggiungere l’eternità:
    – C’era una volta per sempre – una favola che non dovrebbe mai essere raccontata (ispirata a un evento tragico, il terremoto di San Giuliano di Puglia, dove il 31 ottobre 2002, a seguito di una scossa di terremoto crollò una scuola elementare e sotto le macerie perirono ventisette bambini e una maestra);
    – Concerto per voci sorde (un romanzo che si muove nei meandri della comunicazione attraverso il silenzio, la cui seconda parte è ambientata proprio a Spoleto e si conclude al Ponte delle Torri, costruzione amata, temuta e odiata proprio per le vicende di suicidi ad esso connesse);
    – Nessuno ha il diritto di chiamarsi amore (un processo all’amore sotto forma di romanzo: una psicologa sui generis rincorre un giudice per tentare di mettere alla sbarra l’amore e cercare di capire perché questo sentimento così nobile possa degenerare fino a giungere ad ammazzare una persona);
    – Sono nato ma non posso morire – biografia irriverente di Manuel Campus (una camminata nelle pagine di un libro e nella vita di un artista straordinario, di cui vi parlerò più avanti).
    Inoltre, ho inserito la sinossi del mio prossimo romanzo che verrà pubblicato a ottobre 2018: La giungla delle anime e la copertina di una bella favola: Lo strano caso del paese senza nome, in attesa che nel frattempo qualche editore di libri per bambini se ne innamori e la voglia pubblicare.
    Le illustrazioni sono di un artista famoso, Franco Clary, la cui caratteristica è quella di abbellire i fatti e la tristezza della vita rovesciandoli semplicemente con colori e pennello. Un risultato meraviglioso!
    Questo Ci ricorda e Vi ricorda che bisogna sempre investire nell’arte, proprio come fece Giancarlo Menotti quando individuò Spoleto per aprire col suo primo Festival dei due mondi, che quest’anno è giunto alla 60° edizione.
    Se, come spero, fra cento anni resisterà al tempo, lo stesso Festival sarà arrivato alla 160° edizione.
    Clamoroso!
    Chissà quante ne avrà viste. Io, allo stato, ne sono una testimone vivente. Sono nata nel cuore di Spoleto, dove ho vissuto fino all’età di 22 anni, quando per lavoro mi sono trasferita, prima a Genova poi a Roma. Da allora vi sono sempre tornata con continuità e provo sempre lo stesso piacere ogni volta che vi ritorno.
    In tutti i miei spostamenti, durante le mie peripezie, nel mio modo di affrontare la vita, però, lo devo dire, l’energia che mi è occorsa per affrontare tanti momenti difficili è venuta proprio dalle mie montagne. Da ragazza, in gioventù, le ho girate molto con la mia famiglia, vivendo a pieno il meraviglioso verde che circonda Spoleto, visto che papà, Giannoni Corrado, che tanti ricordano, commerciava in legname e avevamo il negozio in via Monterone.
    Persona semplice, amata da tanti, con il suo esempio mi ha donato innanzi tutto la libertà di pensiero, la semplicità della vita e il rispetto per le persone e per l’ambiente.
    Ricordo che alla veneranda età di 80 anni, quando il male lo stava consumando poco a poco e io passavo a prenderlo a casa per andare a mangiare insieme un piatto di strangozzi con il tartufo in Valnerina, un giorno mi disse: Nella vita, se non si ricerca la felicità, che si campa a fare? E io, di ritorno: Come si fa?
    La felicità sta nell’istaurare i rapporti con le persone, e se non si fa questo, passeremo su questa terra senza che nessuno se ne accorga.
    Elementare, no?
    E se così fosse, sono certa che almeno lui, se ne sia andato felice.
    Ma tornando al Festival, ricordo gli artisti che venivano dall’altra parte del mondo e alloggiavano nel convento delle suore di Via Monterone. Quando iniziavano gli spettacoli, sfilavano nella via con i loro vestiti neri, eleganti, con tanto di strumento al seguito. Io e mia sorella, davanti al negozio e vocabolario in mano, cercavamo di aggiungere qualche parola al solito Goodbye!
    Allora tutte le botteghe del centro si riempivano di colori con le boutique e mostre di ogni genere. Spoleto è stata una fucina di idee… gli artisti, oltre quelli che ci vivevano, arrivavano da ogni parte del mondo. Tra i primi che hanno dato lustro alla città, Bizzarri, Campus e tanti altri.
    Proprio su Manuel Campus, e solo voi sarete in grado di verificarlo, è stata la mia scommessa, quando nel 2014 ho scritto il libro su di lui, che vi ho citato prima: sarebbe entrato a pieno titolo nella storia dell’arte, al pari di un Picasso, un Ligabue e persino di Van Gogh.
    Autore dell’imponente statua di Lucio Battisti, a Poggio Bustone, paese nativo del cantante, oltre che dell’opera magistrale in XIX tavole: Golgota Oggi, Manuel Campus ha al suo attivo più di 5000 opere tra sculture, quadri, xilografie e ceramiche, e centinaia di mostre in Italia e nel mondo. Il Maestro vive a pochi passi da Spoleto, a Bazzano Inferiore, che ha eletto a sua residenza, ma come si sa, nemo è profeta in patria, e fino a ora, 60 anni di Festival, nessuno gli ha chiesto di fare un manifesto per l’evento, seppure sia stato invitato persino alla Biennale di Venezia. Né a lui, né a nessun altro artista spoletino che ha contribuito a fare vanto della città in Italia e nel mondo.
    Ebbene, se fra cento anni ciò non fosse ancora accaduto, vi do un aiutino: nella capsula ho messo la foto di un quadro che sarebbe perfetto per il Manifesto del 160° festival dei due mondi… non vi resta che ingrandirlo!
    Però poi, non vi dimenticate di alzare lo sguardo al cielo e, strizzano l’occhio, fissare una stella.
    Non avrete che da dire: Fatto!
    Quella stella sono io, e se vorrete darle un nome, chiamatela Nadija!
    Nadija per sempre.

    19 febbraio 2018

    Nadia Giannoni

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